Articoli

Massimo Troisi, fratello nell’arte

 

Massimo ed io ci siamo incontrati per la prima volta su un palcoscenico, addirittura sotto un enorme chapiteau, a Roma, in un teatro da circo equestre che poteva ospitare più di duemila spettatori alla volta. Quella sera ce n’erano in abbondanza, tanto che gli organizzatori diedero ordine di far scorrere i teloni laterali dello chapiteau per permettere alla gente rimasta fuori dal cerchio di ascoltare almeno le voci degli attori che si sarebbero esibiti uno appresso all’altro. Il caso volle che con Franca noi si recitasse brani del Mistero buffo in cui sulla scena entrambi, io e Franca, apparivamo nelle vesti di Lazzaro, Gesù, la Madonna (naturalmente Franca), disperata e furente nel suo grido sotto la croce. Poi, subito appresso alla nostra esibizione, ecco apparire Massimo Troisi. Ci abbracciamo con calore e io e Franca ci sediamo ai lati del palco per assistere al suo monologo. In una forma di grottesco a dir poco surreale, egli interpretava il personaggio della Madonna. Per indicare quel ruolo, si era appoggiato un misero fazzoletto sul capo. Quel lembo di tela bianca era sufficiente a sottolineare ogni suo gesto, delicato e limitato solo a brevi cenni.

(continua a leggere su ilfattoquotidiano.it clicca qui)


"Jannacci mi ha telefonato. Ha incontrato Franca, si è trasformata in una bambina" (Dario Fo su Il Fatto Quotidiano 26/03/2014)

 

LA METAFISICA DI UN MISTERO ASSURDO

di Dario Fo

24/03/2014 - Quela che sun dre a contarve l’è una storia vera, de vun che l’era minga bun de dì de no. Così comincia una vecchia canzone che s’intonava spesso intorno agli anni ’60 a Milano. Faceva parte del repertorio di Enzo Jannacci. Ora voi non ci crederete, ma a mia volta quello che sto per svelarvi è un fatto autentico e mi è capitato non più tardi di qualche giorno fa; qualcosa che mi ha profondamente sconvolto.

Mi trovavo a casa, nel pomeriggio, da solo, di domenica, suona il telefono e vado a rispondere. “Pronto, chi è?” 

E dall’altra parte sento una voce che riconosco subito per quanto è particolare. Ma è impossibile che sia proprio lui... Chiedo subito “Chi sei? Chi parla?”


E la stessa voce di nuovo mi risponde: “Sono Enzo”.

“Enzo chi?”

“Jannacci”, spiccica lui.

“Ma non dire sciocchezze! A parte che mi pare proprio di cattivo gusto tirare in ballo un amico che non c’è più.”

E l’altro a sua volta: “Sì d’accordo, non ci sono più, ma in questo momento invece ci sono e tu Dario mi hai riconosciuto subito, dì la verità.”

“Ti dirò che sei un ottimo falsario di cadenze e vocalità, in poche parole sei uno molto bravo ad imitare le voci. Per caso, non è che sei il solito rompiscatole della Zanzara?" 

“Zanzara? Ma cosa stai dicendo, chi è sta zanzara?”


“Niente, niente, lascia correre, è un’altra storia di furbacchioni. Ad ogni modo, non capisco che gusto ci sia nel rifare il linguaggio e la cadenza di un amico che oltretutto mi è caro. Dove vuoi arrivare, qual è stavolta la beffa che vuoi giocare?”


“Forse il fatto che son stato via qualche mese mi fa perdere la possibilità di capire cosa stai dicendo – dice lui – cos’è successo con sta zanzara? Ti ha punto eh? Hai provato a mettere l’olio 31?”

“Ma lascia correre l’olio!”

“Guarda che fa molto bene, non dimenticare mai che io sono un medico eh! La buon anima del medico ma sempre parte della sanità! Scusa, ad ogni modo, se ti dico che sono Enzo e tu mi riconosci e dici pure è impossibile che tu mi possa telefonare perché non ci sono più e io ti dico «Come non ci sono più, ci sono eccome, sono qua!» Forse è proibito telefonare se non ci sei di persona? Sì d’accordo, adesso come adesso io sono solo un’anima, ma attento, non disprezzare mai l’anima, specie se è di un amico! E chi t’ha detto che non ho diritto di fare un numero e cercare di parlare con uno che mi è come fratello, anzi dico di più: per me sei sempre stato come un padre, anzi lo sei ancora!”

“Per carità, basta così, se no dirai che sono anche tua madre! Per la miseria, che chiacchera a mitraglia che t’è venuta!”

“Sì, è vero, ma era tanto che avevo bisogno di parlare con te. Anche se sono un spirito, sempre un amico sei, o no? Accidenti, abbiamo lavorato insieme a far musiche, canzoni, spettacoli e metterli in scena qualcosa come per cinquant’anni per Dio”

“Hai detto Dio? Ma laggiù potete permettervi di nominarlo invano?”

“Scusa Dario ma è una battuta di spirito che non mi fa ridere!”

“Non c’è dubbio che sei proprio tu, solo Enzo sa fare discorsi così strampalati!”

“In verità hai ragione ad avere qualche dubbio sulla mia identità: non ti ho detto neanche com’è che ho ricevuto questa specie di licenza”.

“Che licenza? Ma dove ti trovi in una caserma?”

(...continua a leggere su IlFattoQuotidiano.it)

 

Pubblicato su il Fatto Quotidiano in edicola il 26 marzo 2014 , pag. 18 e 19


F35: cara ministro Pinotti, non servono altre inchieste. Quegli aerei sono bidoni!

 

17-03-2014 | Cara Signora Ministro Roberta Pinotti, sarà per i numerosi anni che tengo, ma non riesco ad accettare d’emblée l’idea di una donna che nel nostro governo sia responsabile della guerra, pardòn della difesa!

 

 

È vero che lei Signora, si è già trovata parecchie volte a ricoprire incarichi politici legati al quel Ministero, infatti, sfogliando il suo curriculum, si vieni a scoprire che già nel 2006 ella fu la prima donna, nella storia del governo italiano, a ricoprire la Presidenza della Commissione di Difesa. Un anno dopo, eccola con il ruolo di Ministro della difesa del Governo Ombra del Partito Democratico. ‘Ombra’ vuol dire zona buia, impalpabile, cioè un ruolo metafisico, ma l’importante è cominciare! Di lì a poco lei, Signora, di fatto, viene scelta come capo dipartimento del Pd alla difesa sotto l’egida di Dario Franceschini, poi nel 2009 ottiene l’incarico di Presidente Nazionale del forum Difesa del Pd. Ciò dimostra che basta saper attendere e poi l’ombra si dissolve, e appaiono gli incarichi che contano! E l’ascesa continua, tanto per cominciare passa qualche mese ed ecco che l’onorevole Roberta Pinotti viene nominata sottosegretario di stato al Ministero della Difesa, il tutto sotto il Ministro Mario Mauro nel Governo Letta. Altra breve rincorsa ed ecco che la nostra Roberta Pinotti viene scelta dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi per il suo Governo come Ministro della Difesa! Alleluia!

 

...continua a leggere sul blog de IlFattoQuotidiano.it

 


Addio Arnoldo, gemello diverso, il tuo teatro maestro di vita!

 

immagine arnoldo foà scomparso dario fo ricorda amicizia

 

Arnoldo e io siamo stati grandi amici, Per anni quando ci vedevamo ci prendevamo in giro reciprocamente perchè non so quanta gente ci confondeva. Proprio così: prendeva lui per me e me per Arnoldo, per via del cognome e , forse, per una certa somiglianza.

Io venivo regolarmente interpellato: «Caro Foà, come sta? Che piacere che ci dà quella sua voce meravigliosa». E ad Arnoldo vedendolo serio dicevano: «Fo, certo che uno non si immagina che un attore tanto comico, ironico, sarcastico in palcoscenico sia così serio poi nella vita». Noi ci ridevamo su. Confonderci l'un l'altro per noi era come una burla fatta agli altri. Ecco, oggi ho perso questo gioco che per anni ci ha tanto divertito. E unito.

Ma a parte le risate, Arnoldo Foà è stato un personaggio straordinario. Un attore di grandi capacità e un uomo intelligente, ironico, sempre pronto alla risata. Non so perché non abbiamo mai lavorato assieme. Eppure in passato ci eravamo detti tante volte: «Facciamo qualcosa, Ruzante per esempio», che a lui piaceva molto, gli sarebbe piaciuto recitarlo. Così come mi parlava di autori del Seicento italiano , perché da vero uomo di cultura Arnoldo leggeva molto, conosceva un sacco di cose.

Quello di cui non parlava volentieri erano le persecuzioni razziali che aveva subito con la sua famiglia, in quanto ebreo. Evitava di parlarne. Tendeva sempre a raccontare aneddoti divertenti. Io ci avevo provato tante volte a farmi dire qualcosa, a ripercorrere qualche episodio di quel tragico periodo della sua vita, ma Arnoldo mi interrompeva: «Lasciamo correre, parliamo di oggi che sono vivo grazie a Dio, qualunque Dio sia».

Di Arnoldo ho sempre invidiato la vitalità. Lui ha continuato a recitare fino a due anni fa senza problemi. E tante volte ho pensato alla sua forza, perché non è vero che noi attori siamo presi dalla smania dell'esibizione a tutti i costi e a ogni età. Anche noi, specie se vecchi, ce ne staremmo volentieri in pantofole a casa. Stasera, per esempio, io devo recitare a Padova in un teatro di duemila posti, penserò a Arnoldo che, più vecchio di me di dieci anni, ha recitato fino a non molto tempo fa, oltre i 90 anni. Stanco o no che fosse, sentiva che il teatro era un modo per parlare ancora alle persone.

Perché c'è un'ultima cosa che voglio dire di lui. Quando un uomo come lui che ha vissuto fino a 97 anni, non c'è più, il dolore non è legato alla morte, ma al fatto che con lui se ne va una persona che con tutta la sua storia ha mostrato cosa sia l'attaccamento alla vita: la sua ironia, la sua allegria, la sua sete di cultura, il suo amare le donne anche quando per tutto il resto del mondo devi solo stare all'ospizio... Ecco è questa vitalità che da oggi non c'è più, a mettermi malinconia. Perdere un uomo così pieno di vita è il dolore maggiore.

Articolo di Bandettini e Di Giammarco - Pubblicato su la Repubblica del 12 Gennaio 2014 (Riproduzione riservata)

 


L'altro Mandela: tagli ai privilegi e un solo mandato.

 

di Dario Fo 

il Fatto Quotidiano 12 dicembre 2013

L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, in seguito alle continue manifestazioni e alle pressioni dei democratici, anche bianchi, del Sudafrica, venne liberato dalle carceri nelle quali aveva trascorso gran parte della sua vita. Di lì a poco ci furono le nuove elezioni e l’ergastolano fu eletto Presidente del Sudafrica. Suo vice fu nominato l’ex presidente bianco, De Klerk, che aveva firmato la sua liberazione. Mandela, appena eletto, entrando nel salone–ufficio assegnato al Presidente del Sudafrica esclamava: “Sarà difficile che mi abitui a questi spazi, vengo da una cella di dimensioni molto ridotte, col cesso incluso”. Quindi, rivolto al suo segretario, chiede: “Visto lo sfarzo, quanto è la paga?”. Il segretario mostra la parcella scritta su un foglio. Mandela rimane un attimo senza fiato e ed esclama: “Che esagerazione! No, non posso accettarlo!”. All’istante a tutti quanti noi italici vengono in mente le reazioni degli ultimi eletti al parlamento quando, agli inizi di quest’anno, qualche onorevole fece notare il disastro da cui si trovavano travolti i pensionati, i licenziati delle fabbriche chiuse, smantellate, coi macchinari spediti all’estero. “Dovremmo far qualcosa, dimostrare la nostra solidarietà!” esclamò uno dei neoeletti. “In che senso solidarietà?” chiese impallidendo il solito veterano della poltrona garantita. E la risposta fu: “Cedere una parte del nostro stipendio per soccorrere gli esodati e i giovani senza alcuna prospettiva di lavoro”. Dopo qualche secondo, nella sala non c’era più nessuno, salvo il giovane autore dell’insana proposta.

In una scena all’inizio dello stupendo film Invictus di Clint Eastwood, il partito di Mandela, riunito a congresso, decide di abolire i colori e lo stemma dalle casacche dei giocatori della nazionale di rugby, lo sport più popolare in Sudafrica, dove c'era un solo nero. Votazione per alzata di mano. Tutti gli uomini di colore levano le braccia in alto. I simboli della squadra, che oltretutto si trova in una crisi disperata, vengono annullati. Allora entra in scena Mandela, prende la parola e, con tono deciso, si dice contrario a quella risoluzione. “Dovremmo ripristinare gli Springboks. Reintegrare il loro nome, il loro emblema e i loro colori immediatamente. E vi dico perché.

A ROBBEN ISLAND, tutti i miei carcerieri erano bianchi. Li ho studiati, ho imparato la loro lingua, ho letto i loro libri, la loro poesia. Occorreva che conoscessi il mio nemico per poter prevalere su di lui. E infatti abbiamo prevalso, non è così? Tutti quanti noi abbiamo vinto. I bianchi non sono più i nostri nemici, oggi, sono i nostri fratelli sudafricani, i nostri concittadini in democrazia. E a loro stanno a cuore gli Springboks. Se glieli portiamo via noi li perderemo, ci comporteremo come da sempre hanno fatto loro con noi. No. Noi dobbiamo essere migliori. Dobbiamo sorprenderli con la comprensione, con la moderazione e con la generosità.  È il momento di costruire questa nazione, usando ogni singolo mattone a nostra disposizione”. Ci fu una nuova votazione e, per un solo voto, la proposta di Mandela, Venne approvata.

Ciò che vi abbiamo proposto non è il risultato di una sceneggiatura ad effetto facile: neanche una parola è frutto di fantasia e melodramma. In questi giorni gran parte dei giornalisti mistificano per eccesso il personaggio. Si tende a presentarlo come se si fosse trattato di una specie di San Francesco di colore che impone ai seguaci di abbandonare ogni spirito di vendetta. Un insolito politico straordinariamente illuminato e propenso al perdono e alla pacificazione ad ogni costo.

Mandela, fin da prima della sua liberazione, si estranea completamente come se non avesse vissuto tutte le angherie patite e dice: “Quando la mia liberazione era prossima ho messo giù le tracce dei discorsi che avrei dovuto tenere, e man mano le parole “condanna”, “castigo” e soprattutto “vendetta” venivano cassate. A che scopo avrei deluso i miei fratelli che speravano, in memoria dei loro cari umiliati, torturati, e uccisi per anni, anzi secoli, che fosse data soddisfazione a quel popolo trattato come gli animali da allevamento? Ma il problema più importante era quello della costruzione di una comunità nazionale che non vivesse nella logica infinita della vendetta e delle ritorsioni. Il pericolo maggiore era quello di creare, in conseguenza del far giustizia ad ogni costo, una situazione di paura, anzi, di terrore nella totalità dei bianchi, i quali avrebbero preferito abbandonare il proprio paese piuttosto che subire una ritorsione”.

Quel comportamento fu di esempio a tutti i popoli. Soprattutto l’idea di creare tre commissioni di giustizia che avessero come compito quello di scoprire la verità sulle violazioni dei diritti umani. Non solo quelle messe in atto dai dominatori bianchi, ma anche quelle del movimento al quale apparteneva Mandela. E  in particolare fu istituita una commissione che si preoccupava di indurre chi aveva commesso violenze a dire la verità e soprattutto raccontarla davanti alle loro vittime. Solo confessando i propri delitti si sarebbe potuta ottenere l’amnistia. Ma ancor più si cercava di indurre le stesse vittime al coraggio di testimoniare le violenze subite. E qui esce una verità che pochissimi cronisti hanno avuto la dignità civile di raccontare. Cioè quanti furono gli amnistiati e quanti i condannati: i primi furono 849, mentre i condannati ammontarono a ben 5392.  Compresi alcuni vincitori, come l'ex moglie di Mandela, Winnie Madikizela.

Per concludere vogliamo sottolineare un atto di Mandela veramente eccezionale, unico, forse, nella storia delle grandi guide dei popoli. Egli, nell’atto stesso in cui accettava di ricoprire la carica di Presidente del Sudafrica dichiarava che sarebbe rimasto al potere per un solo mandato. E mantenne la sua parola. Anzi, alla folla di sostenitori che insistevano perché rinnovasse quell’impegno egli rispose: “No, non voglio assolutamente essere di esempio per un andazzo che normalmente si ripete in ogni società democratica: quello di gestire il potere ad libitum. Oltretutto ci sono giovani uomini politici che, sono sicuro, faranno meglio di me. Infatti, personalmente, ho mancato in più un’occasione, a cominciare dal problema della lotta all’AIDS, e da un’attenzione più decisa, direi drastica, contro la criminalità organizzata che sta ancora rovinando il mio paese”.

 

[Riproduzione Riservata]

 

(cliccare sopra l'immagine per vederla più grande)


Dario Fo contro la delocalizzazione: “Così ci sfracelliamo al suolo, serve una legge”

 

Da ilfattoquotidiano.it

Il premio Nobel interviene in favore dei 300 lavoratori delle cartiere Burgo di Mantova, che rischiano di essere "buttati per strada senza pietà". Ma ad approfittare delle condizioni di "schiavismo" all'estero sono anche "Geox, Benetton, Bialetti, Fiat". L'appello allo Stato perché intervenga: "Cancellare la possibilità di spostare aziende solo per accumulare più denaro"

 
 

Non c’è limite all’ingiustizia e alla prevaricazione che il sistema economico è capace di mettere in  atto nei confronti dei lavoratori. Sembra che all’istante l’Italia sia decisa a sbarazzarsi brutalmente di coloro che tengono in piedi i tesori della sua grande tradizione artigiana e produttiva, che tutto il mondo ci ha invidiato per secoli.

I lavoratori delle cartiere Burgo di Mantova corrono il rischio di essere mandati a casa senza tanti complimenti, mettendo sul lastrico numerosissime famiglie. In nome di cosa? Solo del denaro, del  profitto, della perversa logica secondo cui se mi servi ti tengo e quando non mi servi più ti butto per strada senza pietà. Un disastro non solo per un’azienda, ma per tutta la città di Mantova, che viene a perdere una delle sue più importanti realtà produttive. E dire che stiamo parlando dell’unica cartiera in Italia che produce la carta per i quotidiani! Ciò significa che da questo momento giornali come Il Corriere, La Stampa ed altre centinaia di testate, saranno costrette a comprare all’estero la carta su cui gli italiani leggeranno le ultime notizie.

Purtroppo questo è un fenomeno che oggi in Italia sta diventando quasi la norma. Da anni ormai  gli imprenditori italiani spostano le nostre aziende all’estero, dove le paghe dei lavoratori sono più  basse, anche del 75%, e dove ovviamente si pagano meno tasse. Peccato che spesso in questi paesi i lavoratori non abbiano alcuna garanzia e si trovino ad operare in condizioni talvoltadisumane. Ma come, abbiamo lottato tutta la vita perché ai lavoratori del nostro paese fossero garantiti i diritti fondamentali, e adesso mandiamo le nostre imprese in nazioni dove questi diritti nemmeno  esistono?

Eppure alcuni fra i marchi più importanti d’Italia non si fanno alcun problema a comportarsi così. Facciamo un po’ di nomi. Fra coloro che hanno delocalizzato all’estero troviamo per esempio la  Geox (stabilimenti in Brasile, Cina e Vietnam), la Benetton (che è andata a produrre in Croazia) e  la Bialetti (che apre fabbriche in Cina, mentre i lavoratori di Omegna vengono mandati a casa). Ma la regina delle delocalizzatrici è senz’altro la nostra Fiat, che ha scelto di produrre le macchine italiane in Serbia, Polonia, Russia, facendo perdere all’Italia negli  ultimi dieci anni ben 20.000 posti di lavoro.

Per quanto ancora vogliamo sopportare questa situazione al limite dello schiavismo? Quante altre  “situazioni di emergenza” ci faranno bere, da quanti altri “baratri” ci dovremo salvare rimandando  i provvedimenti più necessari e mantenendo in vigore questo sistema vergognoso che, lui sì, ci sta  veramente portando a sfracellarci al suolo?

La cosiddetta “libera iniziativa” degli imprenditori viene platealmente sbandierata come un inalienabile diritto di chi detiene il potere economico. Ma attenti! Questa libera iniziativa non può diventare la libertà di disporre con disinvoltura della vita e del futuro dei lavoratori. Non solo, ma di un’intera società.

La verità è che è necessario un serio intervento dello Stato, il quale deve finalmente discutere ed approvare una legge che affermi che la gestione di un’impresa non può non tenere conto delle  esigenze e della volontà di chi ci lavora dentro. 

Bisogna che le istituzioni riconoscano pienamente che i lavoratori sono parte fondamentale del processo produttivo, e come tale non si possono trattare come degli arnesi da lavoro, delle macchine che quando non servono più, o costano troppo, si buttano via. Al contrario essi devono avere la reale possibilità di dire la propria nella gestione e nelle decisioni che riguardano la vita dell’azienda, a cui essi danno la propria vita.

 

Se si continua a non intervenire significa che il nostro governo accetta questo vero e proprio sfruttamento e rende lecita una gestione a dir poco criminale dell’economia italiana.

Uno Stato civile degno di questo nome non può starsene lì ad osservare come imbesuito una situazione che diventa di giorno in giorno più drammatica, ma deve intervenire a piedi giunti percancellare la possibilità che le aziende possano essere da un giorno all’altro spostate in altri paesi, al solo fine di accumulare sempre più denaro, infischiandosene di coloro che hanno contribuito alla crescita e allo sviluppo di quelle imprese e dell’intera società nel modo più concreto di tutti, cioè con la propria fatica e il proprio lavoro.